QUARTO APPUNTAMENTO ALL’ALBERGHIERO DI LADISPOLI PER IL PROGETTO ARSIAL “SAPERE I SAPORI: A TAVOLA CON GLI ESTRUSCHI”.
E’ giunto ormai al quarto appuntamento, all’Istituto Alberghiero di Ladispoli, il Progetto “Sapere i Sapori: a tavola con gli Etruschi”. Promosso e finanziato dall’A.R.S.I.A.L. (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura del Lazio), il percorso cominciato ad aprile, giovedì 25 maggio ha visto al tavolo dei relatori Catia Minghi, Sommelier di lunga esperienza e Segretaria della F.I.S.A.R. (Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori) di Civitavecchia e Costa Etrusco-Romana e Rocco Zezza, Docente di Enogastronomia dell’Istituto Alberghiero di Ladispoli. Al centro della giornata di studio, la tradizione enogastronomica degli Etruschi e, in particolare, il gusto agrodolce e l’arte dell’abbinamento cibo-vino. Ad introdurre i lavori, la Dirigente Scolastica dell’Istituto Superiore “Giuseppe Di Vittorio”, Prof.ssa Vincenza La Rosa: “Prosegue, con il terzo seminario, il percorso di approfondimento dedicato alle origini della tradizione enogastronomica laziale. Abbiamo seguito finora un metodo che si è dimostrato molto efficace, ponendoci come obiettivo l’Educazione al Consumo Consapevole e alternando momenti di dibattito ad altri di dimostrazione e di attività pratiche. La riscoperta delle radici storiche della nostra cucina ci ha spinto ad approfondire anche le antiche tecniche di lavorazione e di preparazione delle materie prime. Dopo i seminari tenuti da esperti del settore, siamo ora pronti a scendere di nuovo nei laboratori di cucina per trasformate le conoscenze acquisite in competenze e abilità. Ringrazio l’A.R.S.I.A.L., gli organizzatori e i relatori di questo importante Progetto”.
A spiegare agli studenti l’arte, la storia e la tecnica dell’abbinamento cibo-vino è stata Catia Minghi. “Fu Sante Lancerio, il coppiere di Papa Paolo III Farnese (che non a caso era nato a Canino, in provincia di Viterbo e in terra etrusca) a scrivere nel XVI secolo quello che può essere considerato il primo trattato di enologia (autentico spaccato di storia rinascimentale) e ad analizzare l’accostamento perfetto fra vini e cibi. Se Sante Lancerio non amava particolarmente i vini spagnoli e amava moderatamente i francesi, non c’è dubbio sul fatto che le sue preferenze andassero agli italiani (e fra questi, ce ne erano diversi provenienti dalle terre dell’antica Etruria, come il vino di Monterano, quello di Gradoli e la Vernaccia di San Gimignano).
“La ricerca dell’armonia fra piatto e bicchiere è nata, nella sua versione moderna, nel XVI secolo, ma ovviamente i parametri del gusto hanno conosciuto una lunga evoluzione. – ha affermato Catia Minghi – Per moltissimo tempo a prevalere è stata la categoria dell’agrodolce. La sua prima menzione risale alla Persia preislamica: mescolando i sapori, l’uomo doveva ristabilire l’equilibrio delle energie, rotto dalla comparsa del male. L’agrodolce, dominante nell’antichità e anche presso gli Etruschi, è stato, nelle sue varie e complesse articolazioni, una categoria molto longeva, sopravvissuta nei secoli, fino alla metà del 1600, quando la supremazia della cucina francese (basti pensare alla Lettera ai maestri di casa di Nicolas de Bonnefons) impose un criterio di distinzione netta fra il dolce e l’aromatico”. Sul piatto (è proprio il caso di dirlo) c’era una questione di “filosofia del gusto” – ha spiegato Catia Minghi – Se fino al XVII secolo aveva dominato la categoria del ‘sintetico’, dal 1600 in poi toccherà all’ ‘analitico’.
E uno dei primi intellettuali a ribellarsi al vecchio agrodolce fu niente di meno che J.J. Rousseau. Per secoli e secoli gli uomini avevano preferito l’artificio alla natura e si erano sbizzarriti, nell’arte culinaria, a mescolare i cibi e i sapori: era il momento – sosteneva Rousseau nell’Emilio (1762) – di tornare, anche in cucina, allo ‘stato di natura’.
Ma gli Etruschi erano assai lontani da J.J. Rousseau e dunque al loro palato piaceva moltissimo non solo il mulsum (vino miscelato con pepe e miele), ma anche, assai probabilmente, il mulsum abbinato con l’acqua cotta. In assenza di testimonianze certe sull’abbinamento cibo-vino, è possibile infatti solo ricostruire, per ipotesi, le abitudini degli antichi Tirreni in questo ambito.
Potremmo dunque immaginare, in un desco etrusco del VII-VI secolo a. C., un binomio acqua cotta – mulsum? Non è da escludere – ha concluso Catia Minghi.
E’ stata quindi la volta del Prof. Rocco Zezza, coordinatore della giornata di studio, che ha preparato due piatti tipici della Tuscia, con buona probabilità di origini etrusche: l’acqua cotta e la scottiglia.
Il Prof. Zezza ha spiegato agli studenti gli ingredienti utilizzati e le tecniche di cottura, che saranno poi sperimentate dagli allievi in occasione della prossima tappa del progetto, tutta dedicata alle attività di laboratorio. “Si tratta di due piatti della tradizione contadina che si tramandano nei secoli, di generazione in generazione. – ha precisato – Piatti “poveri”, ma al tempo stesso ricchi di valori nutrizionali. L’acqua cotta era (ed è) sostanzialmente una zuppa di verdure, direttamente raccolte in campagna. Per la scottiglia (oggi anche nota come ‘cacciucco di terra’) venivano utilizzate molte varietà di carni, spesso di seconda e terza qualità. Entrambi questi piatti – ha concluso il Prof. Zezza – potevano conoscere varianti legate alla stagionalità delle verdure o alla disponibilità dei diversi tipi di carni”.
Anche giovedì 25 maggio, il servizio di Accoglienza è stata curato dalla Prof.ssa Giovanna Albanese.
Appuntamento il 30 maggio, dalle 9 alle 14, nel Laboratorio di Cucina dell’Istituto Alberghiero di Ladispoli, per la prossima giornata di studio dedicata ai piatti tipici della cucina etrusca.