L’AMBIVALENZA E IL RICATTO AFFETTIVO (Rubrica a cura di Alessandro Spampinato)

ambivalenza

Sin dall’antica filosofia greca con Aristotele si evince che “l’uomo è, per sua natura, un animale sociale”. D’altronde tutta la nostra vita si svolge nei gruppi. Nasciamo in una famiglia, poi andiamo a scuola, lo sport, le attività artistiche, ludiche e ricreative, il liceo, l’università, il mondo del lavoro, i gruppi religiosi ecc. tutto si svolge all’interno delle dinamiche di gruppo. Esistono anche categorie concettuali più astratte che ci inseriscono in grandi gruppi come la città in cui viviamo, la regione, il paese, il continente, il mondo. Questa nostra sociale descrive l’intero arco della nostra esistenza. In effetti, generalmente, non amiamo star da soli. Sentiamo il bisogno di appartenere ad un gruppo all’interno del quale, a seconda del grado di intimità delle relazioni instaurate, ci è possibile dare e trovare comprensione e appoggio. Far parte di un gruppo significa definirsi, collocarsi, potersi confrontare con gli altri, trovare amici, incontrare l’amore, mettere in gioco le proprie capacità, vedersi attribuire un certo valore, avere la possibilità di esprimere le proprie potenzialità, e, quindi, poter crescere e realizzarsi. Instaurare soddisfacenti relazioni interpersonali contribuisce sicuramente al nostro benessere psicofisico e spirituale ed è quindi comprensibile che si cerchi di fare il possibile per mantenerle salde nel tempo. Tuttavia le relazioni interpersonali, seppur siano cariche di possibilità che ci fanno star bene, a volte, sono accompagnate da ombre, cioè da aspetti non immediatamente riconoscibili, che condizionano il nostro agire, la nostra libertà, il nostro stato d’animo e in definitiva il nostro benessere. Il gruppo, infatti, dall’altra parte limita, condiziona, dirige, giudica, definisce dei confini al nostro agire e alla nostra libertà anche di pensiero. Ci impone orari, look, luoghi, un linguaggio condiviso, uno stile di pensiero, una volontà. Basti pensare alla potenza di condizionamento che può avere l’appartenenza ad un partito politico, ad una confessione religiosa, ad un’azienda, ad una banda, alla famiglia, ecc.. l’altra faccia della medaglia dell’appartenenza ad un gruppo è la limitazione della nostra libertà. Superate le prime due fasi di costituzione di un gruppo, ovvero il “coinvolgimento” e la “differenzazione” in cui ci si sente prima parte di qualcosa di unico e speciale e poi si cerca di definirsi all’interno di esso, si entra nella terza delicatissima fase chiamata “lavoro interazionale” in cui il gruppo lavora su di noi e noi influenziamo il gruppo. Questa fase apre la coscienza al secondo dilemma esistenziale: la solitudine! Se si accetta la reciprocità con il gruppo si accetta il cambiamento di noi, la trasformazione in ciò che il gruppo vuole, altrimenti c’è l’esclusione, la fuoriuscita, l’abbandono con colpa! La solitudine è la peggiore condizione per un essere la cui natura è sociale. Pensiamo alla prigione, che già di per sè è un luogo di punizione perchè ci nega la libertà di movimento. In prigione la forma di punizione peggiore è la cella di isolamento. E’ stato dimostrato da studi americani chiamati “Sensory deprivation” che l’isolamento, anche percettivo, genera in poco tempo disturbi psicosomatici e follia. La nostra vita si svolge lungo la sottile linea di confine  di forze opposte: bene-male, salute-malattia, vita-morte, amore-odio, amico-nemico, individuo-gruppo, solitudine-appartenenza, ecc. L’ambivalenza dell’esistenza ci pone di fronte alla scelta in ogni occasione, in ogni momento. La scelta è un nostro potere e una nostra responsabilità, perchè attraverso le scelte che compiamo diventiamo quello che siamo.
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