Mille racconti per mille parole. A cura di Kempes Astolfi
Rosso
Ambientazione: 1941
Genere: Horror
Location: Seattle
Rosso.
Un colore strano, se ci pensi.
Profondo, intenso, come l’ambiente che ti circonda: anche se non c’è niente di “Rosso”, alla fine se vuoi, lo vedi ovunque: lo puoi immortalare come il sangue che scorre nelle vene pulsanti di tutti gli esseri viventi. O lo puoi vedere nella ruggine, o ancora nei semafori, per esempio.
Rosso è un colore primario. E puoi fantasticare, aggiungere, sottrarre.
A proposito di sottrarre: odio i tempi che cambiano, che corrono, che tolgono.
Sono esterrefatto: mentre dall’altra parte del mondo si combatte una guerra di cui ci raccontano i giornali e le radio con relativo ritardo, l’unica cosa che era puntuale, oggi sta facendo la sua ultima corsa.
E io sono rosso. Rosso di rabbia.
Oggi, domenica 13 aprile 1941, la carrozza 706 (7+0+6 = 13, guarda che combinazione) sta facendo la sua ultima corsa. Sono arrabbiato, confuso. Non ho i soldi per comprare quelle nuove diavolerie, come si chiamano, le automobili. E sugli autobus non ci voglio salire.
E pensare che ai primi del secolo la rete tranviaria di Seattle viveva il suo periodo d’oro: si narrava di oltre 300 km di estensione.
Oggi, dopo quaranta anni rimangono solo due linee, e su questa ultima carrozza, due sole persone a bordo. Sono salito questa mattina all’alba e scenderò tra poco, quando si fermerà, dopo il tramonto.
Ho deciso: stasera tutte le persone che saranno con me, in quel momento, termineranno la loro corsa sul treno della vita. Ora siamo io e un distinto signore: impermeabile, giacca, cappello, tutto ben curato.
Ha una valigia nera.
«Perché non l’ha comprata rossa?» domando.
Siamo lontani. Lui si alza, sembra non aver capito. Forse è straniero. Mi si avvicina a pochi passi. Porge l’orecchio: glielo taglierei volentieri.
«Rossooooohhh» sussurro, mostrandogli con occhi sgranati i polsi da cui cola il sangue, fitto, denso, gocciolando a terra.
«Doveva comprarla rossa, quella borsetta» cerco di ricompormi. Il signore ora, di distinto non ha più nulla. Ha una paura fottuta e se la dà via a gambe alla prima fermata.
Ve l’ho detto: oggi su questa ultima carrozza chi rimarrà con me, morirà.
Nell’attesa che salga qualcun altro, scrivo appunti. Le mie memorie, con il sangue che cola dalle mie braccia e che uso come inchiostro per attingere a una penna stilografica.
Ecco un’altra signora, sui cinquant’anni portati male. Malissimo.
Anche lei non sembra vestita non a modo. Forse viene da un funerale: è nera, perdio. Tutta, completamente avvolta da quel cazzo di nero.
Una cosa rossa però c’è: l’accesissimo rossetto sulle labbra che spicca.
Finalmente un po’ di rosso, diamine!
Quando vedo rosso, divento come i tori: impazzisco.
La signora mi rimane a debita distanza, forse ha fiutato qualcosa.
Un timido sorriso.
Lei a me.
Io a lei.
Mi volto con disinvoltura, tolgo scarpa sinistra e calzino. Prendo una lametta con la mano destra e zac.
Mi taglio il mignolo. Non esce molto sangue, come immaginavo. Lo copro con nastro adesivo e mi avvicino verso lei.
«Signora, vedo che ha gusto in fatto di rossetti.»
La vecchiaccia non mi sente. Ha la testa bassa.
Sembra stia piangendo.
Era davvero a un funerale, miseriaccia.
Non risponde. Non alza la testa. Sono irritato. Invece di essere gentile, forse, passo al dunque.
Tanto dobbiamo tutti finire là sotto, con la terra che copre le ossa e il sangue non ci sarà più.
Tanto vale farlo scorrere ora.
No, ho promesso che questo accadrà solo all’ultima persona che salirà con me.
Mi avvicino al conducente. Busso sul vetro: «Quanto manca a fine corsa?»
«Circa dieci minuti dal capolinea. Si goda questo ultimo tratto» commentò affabilmente il ferrotranviere, che non aveva notato gli schizzi di sangue sul vetro generati dal knock della mia mano sanguinante.
«Quante fermate?»
«Ancora una» rispose l’uomo mentre continuava a guardare in avanti.
Sono indeciso. Forse dovrò castigare la vecchiaccia del funerale.
Attendo. Rimango in attesa dell’ultimo stop. Se non sale nessuno, toccherà a lei.
Torno al mio posto, ripasso davanti alla signora e le pronuncio la stessa frase di prima.
«Signora, vedo che ha gusto in fatto di rossetti.»
Questa volta la vecchiaccia solleva lo sguardo.
Neanche lei ha notato il rosso che sgorga dalle mie vene.
«Non ha la scarpa allacciata» mi dice. Acuta.
«Insomma, cosa vuoi?» la aggredisco.
«… Nulla.»
«Vuoi che ti taglio la gola o te ne stai zitta e rispondi alle cazzo di domande che ti faccio?»
Ora è spaventata. Sono proprio cattivo. Mi farei paura da solo. La troia va al gabbiotto e bussa alla porta del conducente.
Attimi confusi, devo agire. Ora o mai più.
La paura si è impossessata di loro. Non lo posso permettere.
Il tram inizia a rallentare e io lancio sulla signora il mio mignolo insanguinato.
«Fottuta troia, che cazzo hai detto a quel nano?»
Il ferrotranviere era basso da far paura. Mai ammazzato un nano prima d’ora.
Mi tolgo la scarpa, il piede sanguina, come le braccia.
La vecchiaccia è impietrita e il conducente ha arrestato improvvisamente il tram.
Non c’è un attimo da perdere. Finalmente vedrò scorrere fiumi di rosso.
Ora tocca a quei due. Del resto, il treno si è fermato, no? È ora di mantenere la mia promessa.
Lancio la scarpa con tutta la forza sulla signora. Centrata in testa, in pieno; svenuta, crolla a terra.
Tiro fuori l’accetta nascosta sotto la giacca. Un colpo secco alla gola della vecchiaccia ed ecco il rosso sgorgare. Il nano è impietrito.
Miro alla mano. Zac.
«Tanto oggi è l’ultima corsa! Non dovrai guidare più!» gli urlo. E poi, zac, l’altra mano. Mi implora di fermarmi ma la mia specialità, quella no, non posso esimermi dal farlo. Zac, accettata secca alla gola.
Scendo nel silenzio più totale. Fuori non c’è nessuno.
Il tram si è fermato a poca distanza dall’ultima fermata.
Ora la corsa è davvero finita. Tanto, doveva finire comunque, no?
Tanto queste persone sarebbero morte comunque prima o poi, no?
E finalmente, ohhh, tutto quel rosso. Bello. Pulsante. Vivo.
Rosso.
Un colore strano, se ci pensi