IL MITO DELLA DIPENDENZA AFFETTIVA (Rubrica a cura di Alessandro Spampinato)

In precedenti articoli abbiamo visto come la dipendenza affettiva, il mal d’amore o l’amore malato sono l’espressione di una cultura, di un modello sociale e morale di donna, di uomo e di coppia.
Se da una parte i modelli culturali servono a stabilire un ordine sociale, un sistema di orientamento e gestione delle relazioni umane e di approccio alla realtà, dall’altra hanno due vizi pericolosi di fondo che li rendono, nel tempo, dannosi e pericolosi. 1) Essi vogliono regolare la vita di tutti senza tenere conto delle differenze individuali; 2) Essi vogliono definire la realtà in modo totalitario, autoreferenziale e univoco. Pensiamo, ad esempio, al matrimonio. Per noi occidentali il matrimonio è l’unione normata e codificata, sia civilmente che religiosamente, di un uomo e di una donna e avere rapporti intimi con altre persone viene giudicato adulterio. Oggi, però, si inizia a parlare di unioni omosessuali e sappiamo che, per la cultura araba, un uomo può sposare più di una moglie. Ciò che per l’occidente è stato “normale” e “reale” fino a qualche anno fa oggi inizia a non esserlo più, ci sono altri modelli, altre culture, non esiste un solo punto di vista.
Questo vale per tutto, l’idea di uomo e di donna, i concetti di amore, matrimonio e famiglia sono costruzioni culturali, modelli ideologici creati per organizzare e definire un ordinamento sociale, per controllare la vita delle persone. Essi sono tanti, relativi e utili fino a un certo punto. Quindi, da dove viene la dipendenza affettiva? Dove affonda le sue radici? Noi occidentali abbiamo una tradizione millenaria di carattere morale e religioso. Se vogliamo sapere dove nascono le nostre idee, il nostro stile di vita e la nostra concezione della realtà dobbiamo andare a cercare lì. Oggi vedremo un primo simbolo religioso che definisce questa idea d’amore totalizzante che porta alcune persone, particolarmente vulnerabili e insicure, a subire maltrattamenti psicologici, fisici e sociali fino all’annullamento della propria persona e della propria dignità. Nella tradizione cristiana vediamo ricorrere il simbolo del pellicano, lo troviamo sia nelle scritture che negli affreschi dei conventi Domenicani del 1400. Nell’Antico Testamento viene citato nel salmo 101, vv. 7-8: “Sono diventato come un pellicano del deserto / sono simile a un gufo tra le macerie/ […] sono diventato come un passero che se ne sta tutto solo sul tetto”. È entrato nella simbologia cristiana come emblema di Gesù Cristo, è quello che i greci chiamavano ‘pélekos’ da pelecus ‘ascia’ con riferimento alla forma smisurata del becco ed anche ‘onocròtalos’, perché trovavano strano (krotos) il suo grido che rassomigliava, dicevano, al raglio dell’asino (onos). È un uccello maestoso, dotato di un lunghissimo e largo becco. Spesso le sue piume sono tinte di rosso per il sangue delle prede e questo particolare ha probabilmente diffuso la credenza che si lacerasse il corpo pur di conservare in vita i piccoli. Un’antica leggenda, infatti, originata forse dall’atto con cui il pellicano curva sul petto il becco per estrarne più comodamente cibo per la nidiata, fa riferimento alla vicenda dei piccoli che colpiscono gli occhi del padre il quale, adirato, prima li uccide, ma poi pentito e addolorato per la loro morte, dopo tre giorni li fa ritornare in vita grazie al sacrificio di sé. Squarciandosi il petto li inonda del suo sangue riportandoli così alla vita. È considerato, perciò, simbolo dell’amore paterno o materno che sacrifica se stesso per salvare i suoi piccoli. L’accostamento del simbolo del pellicano a Gesù che muore sulla croce per salvare l’umanità è immediato. Da qui l’idea che amare significa sacrificarsi per salvare l’altro, annullarsi fino anche a morire per salvare il partner che ci tratta male perchè ha dei problemi che noi, col nostro amore e sacrificio, dobbiamo curare. Le dipendenti affettive arrivano anche a giustificare i maltrattamenti del partner: “fa così perchè lui ha sofferto da piccolo, perchè è insicuro o perchè non vuole accettare che, invece, mi ama”. Proprio come Gesù sulla croce dice riferendosi ai suoi torturatori e assassini: “Padre perdona loro perchè non sanno quello che fanno!”, così le dipendenti affettive sono sempre pronte a perdonare le violenze, gli abusi e le umiliazioni che il partner infligge loro. Questa idea che l’amore sia sacrificio, rinuncia, sofferenza, annullamento, dedizione totale fino anche alla morte è penetrata nel tessuto sociale ed è alla base dell’amore malato che nulla ha a che fare con il simbolo dell’amore di Dio.

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