Pietro Cucumile: “La diffamazione a mezzo blog e la prova digitale”
(A cura dell’Avv. Pietro CUCUMILE, dirigente Comandante del Corpo di polizia locale di Civitavecchia, dottore di ricerca in diritto amministrativo, giudice onorario minorile)
Terza Parte.
Altra dottrina argomenta sul differente presupposto che, nel reato di diffamazione, di pura condotta, la condotta consista nella comunicazione con più persone e la consumazione avvenga solo nel momento in cui i destinatari percepiscono le espressioni diffamatorie, poiché la percezione non è l’evento del reato, ma ne è elemento costitutivo, in quanto fa parte della condotta dell’agente: essa non integra il danno, che, viceversa, si verifica nel momento in cui l’interessato, percependo le espressioni offensive che lo riguardano ma che sono dirette a terze persone, sente lesa la propria reputazione. Sulla scorta di tali premesse, questo secondo orientamento dottrinale giunge all’opposta conclusione per cui il reato, ma non il danno, si è perfezionato nel momento in cui il messaggio venga percepito da una pluralità di persone che al sito accedano; essendo la percezione del contenuto offensivo dei messaggi avvenuta in Italia, il reato dev’essere considerato come commesso sul territorio italiano, alla luce del disposto dell’art. 6 c.p. e del c.d. principio d’ubiquità. Un ulteriore orientamento è incline a considerare la diffamazione un reato di evento, inteso quest’ultimo come avvenimento esterno all’agente, sebbene collegato al comportamento di costui, consistente nella percezione da parte del terzo dell’espressione offensiva; la percezione, conseguentemente, non è un elemento costitutivo della condotta, non essendo in alcun modo ascrivibile all’agente, pur se si configura come una conseguenza del suo operato. In virtù di ciò, il momento consumativo del reato de quo non è quello della diffusione del messaggio offensivo, bensì quello della percezione dello stesso da parte di soggetti che siano terzi rispetto all’agente ed alla persona offesa. Quindi, il reato di diffamazione a mezzo internet viene perseguito ricorrendo all’art. 595 del codice penale denominato “diffamazione” nella sua forma aggravata di cui al comma 3°, tradizionalmente utilizzato per la diffamazione a mezzo stampa. I problemi si presentano, quindi, quando si tratta di individuare, ai fini della determinazione della competenza territoriale, il locus commissi delicti. Avuto riguardo alla diffamazione a mezzo stampa il reato si consuma nel luogo di percezione della notizia lesiva dell’onore, che per costante giurisprudenza viene fatto coincidere con il luogo della pubblicazione della testata giornalistica. Nel caso di internet, il luogo di percezione coinciderà con il luogo della connessione dei vari utenti di internet e, pertanto, non potrà che farsi coincidere con quello dell’immissione della notizia nella rete. Tale luogo è di difficilissima identificazione, potendosi trovare anche in un Paese estero, ma tale circostanza non potrà far venir meno la rilevanza penale della condotta quando la notizia venga percepita da utenti italiani ( ). Pertanto, una recente sentenza della Corte di Cassazione in tema di diffamazione telematica, ha osservato che, in casi del genere, sia impossibile utilizzare criteri “oggettivi unici, quali, ad esempio, quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia della rete, di accesso del primo visitatore, concludeva per l’inapplicabilità delle regole stabilite negli articoli 8 e 9 1° comma c.p.p.”. Inoltre, continua la Corte, “attesa le peculiari modalità di diffusione di notizie lesive dell’altrui reputazione allocate in un sito web, non può neppure sostenersi l’automatica trasposizione dei criteri fissati per i reati di diffamazione commessi con il mezzo della stampa impropriamente valorizzando, al riguardo, le indicazioni in ordine al “luogo di stampa” e a quello di “registrazione” della testata giornalistica contenute sul portale on line”. Pertanto, in conclusione, la Corte ritiene di ripianare il conflitto ricorrendo ai criteri suppletivi fissati nel 2° comma dell’art. 9 c.p.p., ossia individuando quale giudice competente quello del luogo di domicilio dell’imputato. In pratica, occorrerà rifarsi al luogo di domicilio del responsabile della testata giornalistica on line nell’ambito della quale è apparso l’articolo diffamatorio.
Medesima soluzione è stata fornita dalla prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con sentenza n.964/2011, massimata al n.16307/2011, che si colloca nell’alveo tracciato dalla stessa prima Sezione con decisione n.2739/2010, la quale ha statuito, in un caso di conflitto positivo di competenza per territorio, che in fattispecie di diffamazione a mezzo Internet, ai fini dell’individuazione del Giudice competente, “sono inutilizzabili, in quanto di difficilissima se non impossibile individuazione, criteri oggettivi unici, quali ad esempio quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia nella rete, di accesso del primo visitatore” ed inoltre che “non è neppure utilizzabile quello del luogo in cui è situato il server, in cui il provider alloca la notizia”. Per tali ragioni, ha concluso la suprema Corte, “ne consegue che non possono trovare applicazione né la regola stabilita dall’art.8 del c.p.p., nè quella fissata dall’art.9 comma 1 del c.p.p.” ma bisogna “fare ricorso ai criteri suppletivi fissati dal secondo comma del predetto art.9 c.p.p., ossia al luogo di domicilio dell’imputato”.
Inoltre, in fase di indagine, occorre chiedere all’Autorità giudiziaria che venga emesso un provvedimento di sequestro probatorio e/o preventivo dei contenuti denigratori in ossequio “al diritto all’oblio” della persona offesa, in quanto fin tanto che l’autore della condotta non decida di rimuovere i contenuti incriminati, vi sarà perpetua propagazione degli stessi, con reiterazione del danno all’immagine ed alla reputazione. A tal fine, le espressioni gravemente infamanti ed inutilmente umilianti, le quali trasmodano in una mera aggressione verbale, continuano a perpetrare il loro contenuto denigratorio in quanto, attraverso i motori di ricerca, si verifica la perenne associazione del nome dell’offeso alla deteriore informazione de qua, concretizzandosi una rappresentazione della persona tutta in negativo.
Queste ultime tematiche aprono enormi praterie speculative ove solo si voglia pensare alle difficoltà giuridiche connesse all’acquisizione delle evidenze informatiche che costituiscono il patrimonio informativo della persona offesa. Si pensi, ad esempio, alle criticità connesse agli obblighi di conservazione limitati al periodo di un anno per i dati telematici dei provider italiani ovvero al luogo in cui il dato attinente al contenuto diffamatorio si trovi o anche se rilevi giuridicamente il luogo del server o quello del prestatore che offre il servizio. La questione ultima non è peregrina ove solo si pensi che gli Stati uniti non incriminano la diffamazione on line. Si consideri, poi, che, nel fascicolo del magistrato del pubblico ministero, deve confluire il corpo del reato per cui, nella maggior parte dei casi, spetta alla polizia giudiziaria la verifica dell’effettiva sussistenza della pagina diffamatoria. A tal fine, si pensi alle problematiche connesse alle necessità operative della polizia giudiziaria di provvedere a spegnare un computer, di ricercare le tracce del reato attraverso il programma ENCASE facendo ricorso all’istituto della perquisizione informatica di cui all’art. 247 comma 1 bis c.p.p., sempre delegata e con finalità conservative. Si badi bene, poi, che il sequestro, anche quando la perquisizione abbia avuto esito negativo, andrebbe sempre disposto per poter lavorare sui dati cancellati. A tal fine, il magistrato del pubblico ministero, oltre ad adottare il decreto di acquisizione del file di log di un computer, dispone che vengano effettuate due copie forensi del supporto informatico, una da conservare agli atti del pubblico ministero e l’altra per i lavori di ricerca della fonte di prova, nella consapevolezza che le due copie hanno la stessa identità hash.
Altre criticità sono, poi, connesse alla pratica della polizia giudiziaria di inviare una email per avere restituita la posizione ip nella rete del computer su cui si consuma la diffamazione, anche se il risultato non appare utilizzabile processualmente per il combinato disposto degli artt. 188 e 191 c.p.p., come sopra meglio specificato.
Il tutto è comunque legato al concetto di prova digitale che si occupa di veicolare il dato in prova attraverso gli istituti di cui agli artt. 244, secondo comma (ispezioni), 247, comma 1 bis (perquisizioni), 254 bis (sequestro presso gli ISP), 352, comma 1 bis (perquisizione in flagranza di reato), 354, comma 2 (duplicazione) c.p.p. i quali non sono coperti dalle garanzie previste dall’art. 360 c.p.p. Sul punto, si chiarisce che la giurisprudenza di legittimità non riconosce il carattere di irripetibilità alle indagini informatiche . E’ appena il caso di accennare che la prova digitale è anche prova scientifica ma non solo , se resiste ad un processo di falsificazione. Non a caso la prova digitale entra nel processo e quindi nel patrimonio processuale probatorio attraverso l’istituto della perizia. La prova digitale, poi, è anche prova documentale, ex art 234 c.p.p. come può essere anche prova atipica, ex art. 189 c.p.p., caso ricorrente nell’ipotesi delle tanto discusse perquisizioni on line.
In ordine al criterio della competenza, al fine di dare certezza al principio del giudice naturale precostituito per legge, sebbene lo stesso si stia scolorendo nelle recenti pronunce della Corte di Cassazione, considerato che il canone del luogo di percezione da parte dei terzi appare impraticabile, la giurisprudenza ha scelto il criterio residuale del domicilio dell’indagato ([1]) o anche quello del magistrato del pubblico ministero che per primo iscrive la notizia di reato.
In relazione, poi, al sequestro preventivo del blog, qualora le conseguenze della diffamazione perdurino, occorre verificare se il blogger possa gestire da casa sua il blog, limitando la misura precautelare alla sola parte offensiva, mentre per i siti stranieri si può utilizzare l’ordine al provider di non fornire accesso sebbene, in questo caso, non ci sia l’apprensione reale come elemento tipico del sequestro.
Altro dubbio che sopravviene e che è offerto dalla prassi ruota intorno alla motivazione sull’applicazione delle garanzie costituzionali della stampa al blog, che evitano il suo sequestro qualora il blog stesso non sia registrato o se non renda note le fonti di finanziamento ([2]). Si può affermare che i tradizionali istituti giuridici si arrestano di fronte alla realtà fenomenica. Si pensi, ad esempio, che non c’è certezza di chi stia davanti al computer per cui manca la prova specifica della attribuibilità dei fatti al soggetto.
Approfondendo il tema e la casistica del sequestro preventivo, il R.D.Lgs. n. 561 del 1946, all’art. 1, comma 1, nel sancire che non si può procedere a sequestro dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell’autorità giudiziaria, si ricollega all’art. 21 Cost. che tutela la libertà di stampa e con riferimento al sequestro pone una garanzia negativa, rafforzata da riserva di legge specifica (“si può procedere a sequestro soltanto con atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa lo autorizzi ovvero nel caso di stampa clandestina“).In tale ottica, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di segnalare che il sequestro ivi previsto non può che essere quello probatorio, sia per ragioni storiche sia, soprattutto, perchè sarebbe contraria alla logica ed alle finalità tipiche dell’istituto, volto ad impedire l’aggravamento o il protrarsi delle conseguenze della ipotizzata condotta criminosa, la previsione di un sequestro preventivo limitato a poche copie ([3]). Occorre, poi, prendere le mosse dall’art. 21 Cost. che tutela l’esercizio dell’attività d’informazione, le notizie di cronaca, le manifestazioni di critica, le denunce civili con qualsiasi mezzo diffuse in quanto espressione di un chiaro diritto di libertà: quello della manifestazione del proprio pensiero. Nessun ostacolo può, quindi, sussistere nel ritenere la diffusione di un articolo giornalistico a mezzo internet quale concreta manifestazione del proprio pensiero, che non può, quindi, trovare limitazioni se non nella corrispondente tutela di diritti di pari dignità costituzionale e nel rispetto, inoltre, delle norme di legge con le quali il legislatore disciplina in concreto l’esercizio delle attività dianzi indicate. Il sequestro preventivo, a sua volta, allorché cada su di un qualsiasi supporto destinato a comunicare fatti di cronaca ovvero espressioni di critica o ancora denunce su aspetti della vita civile di pubblico interesse non incide solamente sul diritto di proprietà del supporto o del mezzo di comunicazione, ma su di un diritto di libertà che ha dignità pari a quello della libertà individuale. Occorre, quindi, che la sua imposizione sia giustificata da effettiva necessità e da adeguate ragioni, il che si traduce, in concreto, in una valutazione della possibile riconducibilità del fatto all’area del penalmente rilevante e delle esigenze impeditive tanto serie quanto è vasta l’area della tolleranza costituzionalmente imposta per la libertà di parola.
Similmente, la domanda della polizia giudiziaria di avere le credenziali di accesso per la prosecuzione delle indagini deve essere anticipata dall’avviso sulla facoltà di non rispondere. Infatti, se si dovessero avere i riscontri di indagine auspicati con l’uso della password, non avendo informato l’indagato sullo ius tacendi, si verserebbe nei casi di invalidità derivata dai c.d. “frutti dell’albero avvelenato”, qualora in nessun altro caso si fosse arrivati a quegli esiti: in altre parole occorre dimostrare un nesso causale strettissimo.
Un’ulteriore questione riguarda il principio di pertinenza con le indagini che impone di non portare via tutto il patrimonio informatico del soggetto indagato. Si tenga presente che gli internet service provider rappresentano, oggi, i nuovi player d’indagine e lo Stato ha bisogno che questi soggetti collaborino. Il tutto si scontra, però, con la circostanza che si trovano in una posizione di garanzia che li espone al rischio di incriminazione.
Di più. Un’altra criticità è che le intercettazioni telematiche vengono spesso delegate in bianco a privati sebbene la Corte costituzionale, già dal lontano 1973, abbia affermato che il magistrato del pubblico ministero debba essere il dominus delle intercettazioni.
[1] Cass. Pen., sez. I, 26 aprile 2011, n° 16307
[2] Cass Pen., 29 marzo 2006, n° 7125.
[3] Le sentenze 24 gennaio 2006 n. 15961, 7 dicembre 2007 n. 7319 e 12 giugno 2008 n. 30611 della stessa Sezione